Non si può dire che Verdi avesse lasciato molte illusioni al suo giovanissimo collega Mascagni (50 anni esatti di differenza), a proposito della sua opera seconda, L’amico Fritz. Dopo avere assistito al debutto di Roma (31 ottobre 1891), il patriarca dell’opera italiana cesellò con rapide frasi una stroncatura senza remissione. La conclusione era questa: «L’accento… non scolpisce mai al vero la situazione, i caratteri non sono mai ben disegnati». Prima, non aveva mancato di sottolineare che il libretto è “scemo” come forse nessun altro, e aveva messo alla berlina la pretenziosità del non ancora trentenne autore di Cavalleria rusticana: ««Mi sono stancato presto di tante dissonanze, di quei rapporti falsi di modulazione, di tante cadenze sospese e di tanti cambiamenti di tempo, quasi ad ogni battuta».
La severità senza appello del bussetano non impedì che L’amico Fritz percorresse la sua strada nei teatri italiani ed europei, almeno per qualche decennio. E che alcuni suoi pezzi sparsi siano entrati nel popolare musicale di casa nostra, se è vero che ancora all’alba degli anni Sessanta mamma Rai dava spazio all’insolito duo formato da Magda Olivero e Claudio Villa, impegnato all’interno di qualche “varietà” nel “Duetto delle ciliegie” del secondo atto. Ciò non toglie che oggi si possa tranquillamente certificare l’uscita di quest’opera dal repertorio, a prescindere dalle analisi musicologiche e dai generosi tentativi di salvare il salvabile. Lo spettacolo ora in scena alla Fenice, ad esempio, cade a sessantun anni dal precedente (febbraio 1955), il quale a sua volta era stato preceduto da un’unica altra edizione, nel pieno della guerra (ottobre 1944). Il che significa che il Fritz approdò per la prima volta in Laguna più di mezzo secolo il suo debutto assoluto. In Veneto, il precedente che rimane nella memoria è quello del 2001, quando al Filarmonico di Verona se ne ebbe un’edizione rimasta agli archivi esclusivamente per la notorietà del protagonista principale, Andrea Bocelli e per le scelte del regista, che al secondo atto in varie occasioni faceva salire e scendere il tenore non vedente per alcune scalette a pioli, lasciando il pubblico con il fiato sospeso. Inutile dire il rincorrersi dei mormorii in platea ad ogni situazione del genere.
È difficile immaginare un contrasto più radicale fra L’amico Fritz e l’opera che lo precede di appena un anno e mezzo, Cavalleria appunto, che aveva segnato la bruciante affermazione dello stile veristico nell’opera, con il singolare destino di essere l’immediato culmine di un genere che poi non avrebbe quasi più avuto una simile riuscita. E sono singolari i presupposti psicologici che portarono Mascagni sulla via di questa edulcorata e melensa commedia idilliaca, una storietta edificante sulla dolcezza e tranquillità dell’istituto matrimoniale, avversato da un ricco possidente, che capitola – va da sé – nel giro di tre atti e in meno di un’ora e
mezzo di musica, cedendo ai vezzi ingenui della figlia del suo fattore. Come se volesse scontare il successo travolgente della storia siciliana di passione, tradimento e morte, il compositore livornese si mise infatti a cercare un plot volutamente inconsistente, con l’intenzione di farla vedere agli invidiosi che insinuavano che oltre gli effettacci vocali e la tensione drammatica da tagliare a fette egli non sapesse andare. Voleva dimostrare di essere sofisticato, perfino erudito, padrone di stili diversi.
Di fatto, l’opera risulta divisa nettamente in due parti. La prima, che giunge fino alla metà del secondo atto, con il citato Duetto delle ciliegie, è quella che più mette in evidenza lo sforzo di semplificazione, quasi di rarefazione della scrittura mascagnana, che cesella l’irritante vacuità della vicenda con scelte non usuali sia dal punto di vista armonico che sul piano della tavolozza strumentale, sgranata ed eccentrica; quanto al canto, la scelta è per un declamato leggero, di tipo quasi operettistico, che si scioglie melodicamente in soluzioni sempre con il fiato un po’ corto, ma non del tutto banali. Quando si tratta però di venire al dunque, cioè di seguire il filo del mutamento sentimentale di Fritz, l’idilliaco cede improvvisamente e incongruamente la strada al passionale e il discorso si appesantisce riecheggiando la mano di Cavalleria. Ma se nell’opera dell’esordio la tensione espressiva, riflessa in un canto spinto fino quasi alla deformazione della drammaticità romantica, aveva ben motivo di essere, qui l’improvviso cambio di registro lascia sconcertati. Nella cornice piccolo borghese della vicenda, conformista e superficiale, irrompe una violenza espressiva turgida, senza controllo, sia nelle perorazioni del personaggio principale che nella accorate preoccupazioni della sua bella. È una tempesta in un bicchier d’acqua: il chiarimento degli equivoci conduce rapidamente al lieto fine, ma le scelte musicali finiscono per rendere tutto molto paradossale. D’altra parte, anche l’analisi più favorevole, come quella di Cesare Orselli nel libretto di sala della Fenice, deve arrivare alla fine a descrivere il carattere di quest’opera in un ossimoro: “Biedermeier intriso di passione”. Una contraddizione in termini che corrisponde al vero, ma sintetizza il motivo per cui L’amico Fritz è in sostanza un’opera non riuscita, e non un piccolo capolavoro.
Fra l’altro, mettere in scena questa “commedia lirica” è comunque un problema proprio per la sua drammaticità prima evanescente e poi contradditoria. Cercare sottigliezze o approfondimenti sarebbe esercizio fatuo quanti inutile e bene quindi ha fatto Simona Marchini – eclettica teatrante con la vocazione per il melodramma ed esperienze specifiche in questo titolo – a non inseguire questo tipo di interpretazioni. Lo spettacolo veneziano si dipana quindi lungo un percorso di paciosa ovvietà, inerte in fondo quanto l’opera, affidandosi agli interni realistici di Massimo Cecchetto (che costruisce una cornice lignea per provare a racchiudere la vicenda in uno spazio di qualche concretezza) e ai graziosi costumi un po’ favolistici e un po’ ottocenteschi di Carlos Tieppo. Che ci sia in locandina la firma di un light designer sembra piuttosto esagerato, vista l’ovvietà delle soluzioni illuminotecniche.
Rilevante però la compagnia assemblata dalla Fenice per l’occasione. Il ritorno di Carmela Remigio ha certificato la duttilità stilistica ed espressiva di questo ottimo soprano, che non si è sottratto agli inevitabili quanto stucchevoli bamboleggiamenti di Suzel, regalando agli affondo drammatici fra secondo e terzo atto colore convincente e linea di canto trascinante. Sullo stesso piano il Fritz di Alessandro Scotto di Luzio, la cui voce sembra più adatta alla parte leggera dell’opera, ma non ha certo sfigurato in quella “tempestosa”, segnalandosi per eleganza timbrica, tenuta sull’acuto anche nelle situazioni più spinte. Elegante, più mondano che religioso, il rabbino David di Elia Fabbian, precisa Teresa Iervolino, che ha dato vita alla parte mezzosopranile dello zingaro con appropriata cantabilità. A posto i comprimari: William Corrò, Alessio Zanetti e Anna Bordignon. Dal podio, Fabrizio Maria Carminati non ha cercato inutili compromissioni o equilibri precari: all’inizio ha delineato sonorità e fraseggi piuttosto leggeri, più avanti ha appesantito dinamiche e tinta orchestrale, assecondando il rapporto fra l’orchestra e i cantanti.
Le prossime repliche sono in calendario il 31 maggio, il 3 e il 4 giugno. Dal 3 giugno l’opera può essere seguita in streaming sul sito www.culturebox.fr
Foto: Michele Crosera