Rossini voleva che fosse eseguita con un organico vocale estremamente ridotto, prettamente cameristico. Lo aveva anche specificato all’inizio della partitura autografa, scrivendo così in francese (allora abitava a Parigi): «Dodici cantori dei tre sessi, uomini, donne e castrati, saranno sufficienti per la sua esecuzione: cioè otto per il coro, quattro per le parti solistiche, in totale dodici cherubini». Il pezzo in questione è la Petite Messe Solennelle, lo stupefacente capolavoro sacro degli ultimi anni dell’autore del Barbiere di Siviglia, scritta nel 1863 ed eseguita per la prima volta nella primavera dell’anno seguente, nel palazzo di un aristocratico suo amico. È presumibile che in quell’occasione siano state rispettate almeno numericamente le prescrizioni dell’autore, ma non abbiamo testimonianze sulla presenza di evirati cantori. Gioachino partecipò all’esecuzione girando le pagine dello spartito a uno dei due pianisti ai quali è affidato l’accompagnamento, che prevede anche l’harmonium.
Un’esecuzione a ranghi così ridotti è avvenimento raro, ma un festival è tale perché insegue ciò che non è abituale, che poi in questo caso è semplicemente l’esplicita volontà del musicista. E quindi ha fatto benissimo Titta Rigon, direttore delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico di Vicenza, a proporre la Petite Messe nella sua versione “primigenia”, se così vogliamo chiamarla. Lo stesso Rossini la definiva provvisoria, essendo ovvio che il punto di arrivo doveva essere la strumentazione dell’accompagnamento per grande orchestra. Ma proprio le difficoltà di ottenere le necessarie “forze vocali” per un’esecuzione in chiesa a pieno organico – causate dall’impossibilità di fare cantare le donne insieme agli uomini nelle cantorie e dalla proibizione di utilizzare negli edifici sacri gli evirati – lo dissuase a lungo. Alla fine si decise, però la Petite Messe Solennelle con orchestra non fu mai eseguita finché visse. E le due versioni ebbero il destino di vivere autonomamente nel repertorio, nonostante l’una teoricamente dovesse essere la preparazione dell’altra. Anzi, quella con i pianoforti è oggi probabilmente la più eseguita. E rende evidente come la tastiera fosse diventata fondamentale nel “pensare musica” di Rossini durante i suoi ultimi anni, un mezzo di singolare duttilità espressiva, utile anche per domare la “dottrina” necessaria alla scrittura di una Messa, che pur nell’epoca del gusto operistico dominante non poteva rinunciare alla polifonia, al contrappunto, alle tecniche dello stile antico da chiesa.
Capolavoro della musica sacra non solo ottocentesca, la Petite Messe presenta caratteristiche che rendono molto aleatoria una sua destinazione liturgica. Anche se la composizione segue puntigliosamente l’Ordinario della Messa cattolica, aggiungendovi un “Preludio religioso” solo strumentale all’Offertorio e un Mottetto per soprano solo fra Sanctus e Agnus Dei. L’esecuzione secondo l’intendimento rossiniano rende più chiara questa caratteristica e scioglie l’apparente ossimoro dei due aggettivi contrastanti, “piccola” e “solenne”. A ranghi vocali ridotti all’essenziale, la Messa è in effetti autenticamente “da camera”. E l’Olimpico dava l’idea di “contenerla” alla perfezione in queste dimensioni sonore, sottolineando al contempo con la sua monumentalità la solennità dell’intenzione creativa, caratterizzata da una profondità emozionante e talvolta insondabile, proprio come lo è una preghiera che viene dal profondo e va all’assoluto senza cessare di essere squisitamente personale.
L’esecuzione proposta dalle Settimane Musicali era una sfida anche perché Rigon ha scelto i suoi dodici cantori in collaborazione con il Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia e la sua scuola di canto. Interpreti giovani, preparati: tutti ottimamente impostati, tutti bravi a mantenere l’equilibrio nelle parti d’insieme, a dipanare con precisione il contrappunto delle due grandi doppie Fughe che suggellano il Gloria e il Credo, a esprimere una consapevolezza stilistica in grado di tenere conto del continuo giustapporsi fra il melodrammatico e il rigoroso nella partitura. Interpreti dalle voci educate e ben gestite nel colore, non di rado seducenti. È il caso del soprano Miao Tang, e dei contralti Huijiao Li e Valeria Girardello. A quest’ultima, vicentina di Schio, Rigon ha affidato la parte solistica del conclusivo Agnus Dei, regalando la rivelazione di una voce di colore raro quanto affascinante, esaltata da una disposizione espressiva davvero emozionante. Ma vale la pena di citare anche tutti gli altri, comunque di alto livello: i soprani Arianna Cimolin e Valentina Corò, il contralto Ludovica Marcuzzi, i tenori Andrea Biscontin, Diego Rossetto e Nikolay Statsyuk, i bassi Paolo Ingrasciotta, Francesco Toso e Chenglong Wang. In efficace equilibrio con le parti vocali l’accompagnamento pianistico di Alberto Boischio (il principale, dal tocco sostanzioso e tuttavia agile) e Manuel Ghidini, affiancati da Carlo Emilio Tortarolo all’harmonium.
Teatro quasi al completo, una decina di minuti di applausi riconoscenti. Sabato prossimo, incastonata fra le repliche del venerdì e della domenica delle Nozze di Figaro, la Petite Messe Solennelle torna all’Olimpico.