Opera

Il “Barbiere” inattuale di Jessica Pratt

La regina del belcanto debutta nel ruolo di Rosina e all'Arena: interpretazione all'antica, ricca di arbitrio virtuosistico, con tanta agilità e alcuni exploit vocali, ma poco peso negli insiemi e nei recitativi. Lo stile filologico "salvato" dal tenore Antonino Siragusa. La ripresa dello spettacolo di Hugo de Ana conferma: è un piccolo miracolo di fantasia e di brillantezza ironica

Se qualcuno si aspetta Siviglia, meglio che si ricreda. E quanto al “colore spagnolo”, dovrà accontentarsi di una fugace apparizione di un paio di nacchere, o di qualche guizzo coreografico vagamente a tema. Per il resto, niente Andalusia nel Barbiere di Siviglia che ha debuttato sabato all’Arena, ma il trionfo della fantasia e della brillantezza. Il merito è di Hugo de Ana, l’estroso regista-scenografo (e costumista) argentino da sempre a suo agio negli spazi monumentali, che nell’anfiteatro romano ha già firmato altri tre allestimenti (Nabucco, Tosca e Traviata), tutti all’insegna del kolossal creativo.

Qui il kolossal non c’è, ma c’è un’idea-forza che non cessa di convincere il pubblico da quando questo Barbiere ha iniziato le sue rappresentazioni areniane, nel 2007, per tornare nel 2009, nel 2011 e ora nel festival di questa estate. La trascinante commedia di caratteri, capolavoro di Rossini, viene ricondotta alla sua essenza con un’invenzione scenografica che sposta la drammaturgia nella dimensione di una favola piena di fantasia: come in una specie di Alice nel paese delle meraviglie operistica, tutto si svolge in un enorme giardino nel quale le rose sono grandi come alberi, le farfalle hanno l’apertura alare di un deltaplano e le siepi sono altissime, apparentemente invalicabili. In realtà, il labirinto verde che disegnano, teatro di verzura molto particolare, può scomporsi e ricomporsi in vario modo scorrendo a vista circolarmente. E questo permette all’incessante gioco di incontri e scontri fra i personaggi delineato da Rossini di avere un risalto immediato ed efficace. Completano il quadro costumi quasi da cartone animato, tanto sono sopra le righe, e soprattutto un costante corredo di movimenti coreografici da parte di mimi e danzatori, tutto intorno al fuoco dell’azione, firmati da Leda Lojodice. Così, l’energia, il ritmo e la brillantezza della partitura rossiniana si risolvono in un crescendo visivo che aggancia l’attenzione dello spettatore fin dall’Ouverture e non lo lascia più fino al gran finale, quando una cascata di fuochi d’artificio rende omaggio al gusto nazional-popolare dell’opera in Arena, per una volta senza sembrare posticcio o inutile.

Certo, il pericolo insito nel repertorio, nella ripresa di spettacoli già visti e rivisti, è il grigiore della routine. Lo si è notato, forse era inevitabile, per quasi tutto il primo atto della prima di sabato, quando lo spettacolo è sembrato scricchiolante e incapace di decollare veramente in tuta la sua trascinante leggerezza. Effetto della cronica impossibilità di congrue prove nel calderone della stagione areniana, ma già il secondo atto ha lasciato vedere che il meccanismo funziona, eccome. E le prossime repliche, da questo punto di vista, dovrebbero segnare un deciso miglioramento.

Notevole l’interesse della serata anche dal punto di vista musicale, fra l’altro con una serie di importanti debutti areniani. Debuttante assoluta (nel ruolo di Rosina e nell’anfiteatro) era il soprano anglo-australiano Jessica Pratt, una delle più affermate belcantiste dei nostri giorni, che si è volutamente distaccata dal rigore filologico dell’edizione critica dell’opera per tornare alla libertà e agli eccessi interpretativi di una lunga e superata tradizione esecutiva. Del resto, è già anomalo che la parte di Rosina sia affidata a un soprano e non, come voleva Rossini, a un mezzosoprano.

La Pratt si è proposta con uno stile ridondante nella coloratura e nelle variazioni, mettendo in primo piano l’agilità fine a se stessa e la ricerca dell’exploit sull’acuto (nella Cavatina “Una voce poco fa” ha chiuso con un Fa sovracuto, che naturalmente Rossini non ha mai scritto). Il clou si è avuto nel secondo atto, alla scena della lezione, quando ha introdotto un’Aria con variazioni del compositore austriaco dell’Ottocento Heinrich Proch, “Deh! Torna mio bene”, un pezzo favorito di soprani di coloratura antichi e meno antichi, come Luisa Tetrazzini, Maria Callas, Joan Sutherland. Pochi minuti di gorgheggi acrobatici in una sorta di catalogo di tutte le tecniche virtuosistiche più esteriori, con trilli, volate, staccati vertiginosi, salti di nota e sovracuti in serie. Le doti di questa interprete sono indubitabili, ma laddove non poteva lasciare libero sfogo alla fantasia (e all’invenzione vocale, se così vogliamo definirla) e doveva restare sulla linea rossiniana, ha mostrato un “peso” non sempre adeguato nella zona bassa della tessitura ed esiguità di volume nei recitativi.

In uno spettacolo senza timori di contraddizioni musicali, la linea filologica è stata invece seguita fedelmente e con notevoli risultati dal tenore Antonino Siragusa, il Conte di Almaviva, voce educatissima, stile impeccabile e grande nitidezza nell’agilità. Dopo un inizio guardingo, Mario Cassi (altro debuttante) ha dato a Figaro rilievo scenico e vocale di buona efficacia, affiancato da due ottimi interpreti come Bruno De Simone (Bartolo caricaturale ma senza eccessi) e Roberto Tagliavini, Basilio di notevole prestanza vocale nella celebre aria della calunnia.

Debuttava anche il giovane direttore Giacomo Sagripanti, che raramente ha trovato colori e fraseggio adeguati alla vastità dello spazio e alla complessità di un’acustica non ben servita dai metodi tecnici per “esaltare” il suono, anche se era evidente e a tratti anche convincente la ricerca della vivacità e dell’ironia, che sono il cuore della partitura.

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Pubblicato su Vvox.it

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