Lo spazio di Zelmira ha le dimensioni del glorioso campo da basket di una volta. Ovvero, dell’intera attuale platea multifunzionale dell’Auditorium Scavolini di Pesaro, tornato l’anno scorso a essere luogo del Rossini Opera Festival dopo un’eclissi durata quasi vent’anni. Un palcoscenico molto vasto per una scenografia costituita essenzialmente da una grande pedana ad alta tecnologia, con possibilità di retroilluminazione dei suoi elementi, semovente abbastanza per allargarsi in qualche momento di un paio di metri, in vari punti “scavata” per suggerire luoghi e situazioni dell’opera di Rossini, con fantasia molto simbolica. Così, da una parte c’è un rettangolo cimiteriale, dal quale un aspirante usurpatore del trono di Lesbo e il suo aiutante rimuovono il cadavere del condottiero che hanno assassinato subito prima che l’opera attacchi. Si tratta di colui che aveva deposto il monarca legittimo, costringendolo a vivere nascostamente con l’aiuto della figlia Zelmira. Il corpo senza vita viene trascinato all’intorno e poi si riprende quasi come zombie, diventando presenza mimica costante, e fin troppo ingombrante, per tutto lo spettacolo. Dall’altro lato, in diagonale, la reggia è contrassegnata da una semplice poltrona-trono a fianco di una sorta di piccola piscina, in cui più di qualcuno si bagna. Il “buco” più grande, naturalmente, è quello dove prende posto l’orchestra, che dunque diventa personaggio oltre la musica: i cantanti sono davanti, dietro, a fianco dei suonatori, vicinissimi o molto distanti a seconda della situazione, più che del momento musicale.
Al suo debutto assoluto al ROF, il regista Calixto Bieito convince solo in parte, ma senza dubbio lascia il segno. E parlando di un festival che nei suoi quasi 50 anni ha visto passare il meglio della regia contemporanea, non è dire poco. Lo fa con un allestimento le cui chiavi di lettura sono molteplici, a volte problematiche, altre volte provocatorie, non di rado enigmatiche. Ma tutte derivano dalla scelta, che non è solo tecnica, di portare il palcoscenico al centro, con gli spettatori disposti a cerchio tutto intorno, sui quattro lati delle gradinate. Il che vuol dire che ciascuno ha in sostanza assistito a una sorta di “spettacolo personale”, data la sostanziale “unicità” di quello che poteva vedere e sentire. Perché ogni cosa che accade, e ogni suono emesso dai cantanti o dall’orchestra, in questo spettacolo risultano diversi a seconda della posizione occupata.

Si tratta dunque di una vera e propria destrutturazione operistica, peraltro – e ovviamente – possibile solo nello spazio dell’Auditorium Scavolini. Non è una questione interpretativa: qui sono aboliti il proscenio, le quinte e l’ideale suddivisione della scena in “zone d’interesse”; è ammainata la logica della distribuzione delle posizioni attoriali secondo la drammaturgia e con essa svanisce il senso “antico” dei cosiddetti “colpi di scena”, che nel pur farraginoso libretto della Zelmira (Andrea Leone Tottola) sono rari e per così dire quasi casuali, ma presenti. E poi è anche abolita – qualcuno potrebbe dire: soprattutto – l’abituale percezione dei fatti musicali, strumentali e vocali. Nel corso della lunga rappresentazione, infatti, a ciascuno spettatore capita di sentire gli interpreti cantare vicino a lui, ma anche molto lontano (decine di metri); e chi canta talvolta gli volta le spalle, oppure è in posizioni anomale, che però tali non sono per altri fra il pubblico. E nei duetti o nei numeri d’insieme quasi sempre gli interpreti sono non solo lontanissimi fra loro, ma anche rivolti altrove, come se non stessero dialogando.
Quanto alla straordinaria scrittura strumentale sciorinata qui da Rossini, quasi un unicum nella sua produzione operistica per sapienza e densità drammatica, è ovvio che anche qui molto se non tutto dipendeva dalla posizione d’ascolto rispetto all’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna (tornata al ROF dopo un’assenza di un decennio). Chi scrive vedeva in faccia (sullo sfondo) il direttore Giacomo Sagripanti e la disposizione orchestrale risultava quindi rovesciata: archi lontani, ottoni e fiati davanti. L’equilibrio era l’ultima cosa da pretendere, resta il dubbio se le sporadiche imprecisioni notate nei corni durante il secondo atto (abbiamo assistito alla prova generale aperta al pubblico) sarebbero state meno evidenti con una disposizione tradizionale. Che peraltro, in questo caso, era quella vista e sentita da chi sedeva sulla gradinata opposta alla nostra.
Fin qui la destrutturazione tecnica, se così si può definire: un invito certamente provocatorio e per molti aspetti fuorviante a mettere da parte le consuetudini di ascolto e di visione, sul quale c’è da riflettere. Per molti aspetti, fra l’altro, questo spettacolo appare come un ideale omaggio al fondatore del ROF, Gianfranco Mariotti, scomparso lo scorso novembre dopo averlo guidato dalle origini al 2017, che amava gli approcci innovativi ed ha avuto un ruolo decisivo nel portare Rossini fuori dalle secche della convenzionalità al passaggio fra il XX e il XXI secolo.

Nella narrazione registica specifica, alle prese con un’opera la cui tenuta drammatica è sempre stata revocata in dubbio (e accusata di essere la causa dell’eclissi del titolo, non per caso solo al terzo allestimento al ROF, dopo il 1995 e il 2009) l’impostazione di Bieito perde decisamente efficacia. Affiancato da Barbora Horáková, che co-firma la scenografia, da Ingo Krügler, responsabile di costumi post-moderni e dark, vagamente distopici non senza qualche tocco arcaico e da Michael Bauer per le luci, il regista spagnolo cerca di andare oltre le aporie librettistiche, l’evanescenza della trama, la sostanziale assenza di sviluppi drammatici nei personaggi con una lettura fortemente psicologica e artificiosamente simbolica. Viene delineato un doppio “focus” nel rapporto molto ambiguo (non di rado caricaturalmente ambiguo) da un lato fra l’usurpatore Antenore e il suo fedele aiutante Leucippo, cospiratori ai danni del re Polidoro e maestri di simulazione e inganni, e dall’altro fra la protagonista femminile in titolo (figlia e protettrice salvifica del re) e la fedele Emma. Il marito di Zelmira, Ilo, è un reduce di guerra vittima di stress post-traumatico, motore quasi inconsapevole di una storia le cui svolte portano comunque al lieto fine. Restano senza spiegazione (ovvero senza necessità drammaturgica oltre la suggestione fine a sé stessa) vari oggetti presenti in scena: su tutti, l’orsacchiotto con cui gioca Antenore, che rispunta in tutti gli angoli e il nastro magnetico febbrilmente tolto da un magnetofono e sparpagliato per terra da Emma. Di tanto in tanto circola anche un angelo con grandi ali bianche, e chissà perché. E le decine di elmetti che ingombrano la scena dal ritorno di Ilo in poi (avviene verso la metà del lunghissimo primo atto) dopo un po’ diventano stucchevoli. Al second’atto, poi, Bieito sembra riscoprire di colpo che la vicenda si svolge nell’antica Lesbo, ed ecco che tutti i personaggi girano con vasi finto antico o pezzi di scultura e reperti analoghi. Il risultato è che lo spettacolo non trova mai il colpo d’ala oltre le evidenze della destrutturazione operistica complessiva, che peraltro porta alla forse tecnicamente necessaria ma non apprezzabile abolizione dei sovratitoli. Il che rende ancora più ostica la fruizione dell’opera, visto che non si tratta certo di titolo in repertorio, ben noto al pubblico.
A differenza della produzione del 2009, quando era stata proposta la versione Parigi 1826, comprendente un’Aria aggiuntiva scritta da Rossini per Giuditta Pasta (derivante da Ermione), questa nuova edizione di Zelmira ha visto l’esecuzione della versione Vienna 1822. In questo caso, c’è una sola aggiunta rispetto alla musica del debutto assoluto di pochi mesi prima al San Carlo di Napoli. All’inizio del secondo atto Emma canta una suadente e poetica Aria su testo di Giuseppe Carpani, biografo di Haydn e dello stesso Pesarese.
Giacomo Sagripanti ha concertato con l’attenzione e la ricchezza di dettagli richieste da una partitura che si caratterizza per la complessità della scrittura, anche in chiave polifonica, per la ricchezza dello strumentale negli accompagnamenti, per la forza non solo virtuosistica delle linee vocali. Di questa complessità il direttore abruzzese ha fornito una lettura che senza rinunciare alle sottigliezze analitiche, con scelte di tempo convincenti e dinamiche molto eloquenti (per quanto concesso dalla situazione acustica e percettiva).
La compagnia di canto lo ha assecondato con l’efficacia concessa dalla destrutturazione voluta da Bieito, comunque affermando il valore teatrale del canto rispetto al problematico taglio nella recitazione richiesto dal regista. Nel ruolo del titolo, Anastasia Bartoli, dal 2023 presenza fissa al ROF, si è proposta con crescente incisività, nel secondo atto raggiungendo l’equilibrio e la pienezza della linea di canto, fra coloratura adamantina e apprezzabile controllo in zona acuta come richiesto da una parte assai complessa e per vari aspetti ingrata, specie nei numeri d’insieme, all’interno dei quali la scrittura non consente troppi sfoggi belcantistici. È proseguito così il suo itinerario rossiniano sulle orme della madre Cecilia Gasdia, che era stata Zelmira nel 1988 in occasione della prima registrazione mondiale dell’opera, diretta da Claudio Scimone. Al fianco di Bartoli, Marina Viotti è stata una Emma dalla linea di canto duttile e sfumata, di indubbia eleganza.

Agguerrita la compagine delle voci maschili, con il tenore americano Lawrence Brownlee, Ilo, capace di una prova di splendido rossinismo, fra agilità impeccabili e superba tenuta nella zona sovracuta della sua impervia parte. Si è trattato per lui di una sorta di secondo debutto, visto che il suo precedente operistico al ROF risaliva al lontano 2010, quando era stato Ramiro nella Cenerentola con regia di Luca Ronconi. Molto bene Enea Scala nella parte del cattivissimo Antenore, a ricostruire la forza “baritenorile” della parte scritta da Rossini per il celebre Andrea Nozzari. Scala ha mostrato di poter svettare con la stessa facilità ed eguaglianza con cui scende in basso nella tessitura, esprimendosi con forza espressiva pari alla qualità belcantistica dell’emissione. Positivi anche l’insinuante Leucippo di Gianluca Margheri, che Bieito vuole quasi sempre a torso nudo, e il dolente Polidoro di Marko Mimica. Completavano il cast Paolo Nevi (Eacide) e Shi Zong, un gran sacerdote che il regista, chissà perché, ha fatto sfilare per l’ampio palcoscenico reggendo un cubo di plexiglas trasparente. Decisiva per misura e intensità la prova del coro del teatro Ventidio Basso di Ascoli, istruito da Pasquale Veleno, disinvolto nel proporsi con omogeneità e buona grana timbrica in tutte le posizioni richieste da Bieito, il più delle volte inerpicato sulle ripide scalette delle gradinate, in mezzo al pubblico.
Alla fine della prova generale, applausi vivissimi per tutto il cast, ma il regista e i suoi collaboratori non si sono fatti vedere. Dopo la prima, trionfale l’accoglienza per il cast, vivaci le contestazioni nei confronti di Bieito. Sembra il destino di Zelmira: nel 2009 la disapprovazione del pubblico era toccata a un altro protagonista della regia contemporanea come Giorgio Barberio Corsetti.
Photo © Amati Bacciardi – Rossini Opera Festival
