Il punto di partenza è singolare, sicuramente originale: L’Italiana in Algeri in versione “queer”, con la protagonista “drag queen”. L’idea, sostiene nelle Note pubblicate sul programma di sala la regista Rosetta Cucchi «non è una provocazione: è una naturale evoluzione del linguaggio buffo, che aggiorna Rossini ai nostri tempi». Né manca la messa a punto ideale (e anche politica): «In un’epoca in cui i diritti, le identità e le libertà artistiche sono nuovamente in discussione, il teatro musicale deve tornare a essere uno spazio di disobbedienza intelligente, giocosa e seduttiva». Vasto ma intrigante programma, verrebbe da dire. E pazienza se il concetto dell’opera come “spazio di disobbedienza” è categoria storiografica un po’ usurata. Conclusione: «Con questa produzione Rossini non si traveste, si libera».
Che Rossini avesse bisogno di essere liberato nell’anno di grazia 2025, in occasione della edizione numero 46 del benemerito Rossini Opera Festival in quel di Pesaro può risultare sorprendente, specialmente se a dichiararlo è una pesarese come Cucchi, collaboratrice di lunga data della rassegna, prima come pianista accompagnatrice e poi come regista arrivata ora al terzo spettacolo rossiniano, dopo l’Adina del 2018 e l’Otello del 2022. Ma le buone intenzioni – al netto dei proverbiali rischi – sono sempre positive.
Il punto semmai era vedere come queste brillanti dichiarazioni di principio diventano spettacolo, al di là della sorpresa, del gusto di mettere provocatoriamente al centro della scena un immaginario peraltro ormai sdoganato e comunque ben presente nella società contemporanea. Le drag queen – con il loro armamentario di trucco grottesco, parrucche imponenti e costumi esagerati – sono cinque: quattro fanno da contorno come figuranti onnipresenti a quella che a tutti gli effetti è la loro leader, Isabella, la protagonista, anzi la dominatrice dell’opera. Il quartetto (Calypso Fox, Elecktra Bionic, Ivana Vamp, Maruska Starr) compare ancora prima che lo spettacolo abbia inizio, facendosi arrestare fra il pubblico, all’ingresso del teatro Rossini. Il tempo di scendere dal loro pulmino Westfalia d’epoca e una milizia pure notevolmente caricaturale le imbarca, non senza una certa resistenza. La quinta – dopo qualche apparizione durante la brillantissima Sinfonia avanti l’opera – prende la scena un po’ prima della metà del primo atto, quando canta la Cavatina “Cruda sorte” e non l’abbandona più, come si sa, fino al trionfo definitivo nei confronti di Mustafà. La vittoria sarà sottolineata dalla almeno parziale vestizione del Bey di Algeri anch’egli come drag, piuma in testa, stivali rossi e dolorosa ceretta in diretta sul petto villoso.
Lo spazio della vicenda è disegnato da Tiziano Santi: con l’apporto delle video proiezioni sullo sfondo di Nicolás Boni (quasi sempre marine, ma ci sono anche storiche immagini di manifestazioni di protesta Lgbt al momento della grande Aria “Pensa alla Patria”), l’azione si svolge in una struttura a due piani, collegati da una scaletta a chiocciola. Niente di particolarmente originale: qualcosa del genere avevamo visto anche nel Barbiere di Siviglia secondo Luigi De Angelis di Fanny & Alexander, prodotto dai teatri di tradizione di Rovigo e Ravenna un paio di anni fa. Il palazzo del Bey diventa quindi una villa altoborghese, presumibilmente (ma non troppo) collocata da qualche parte in Medio Oriente.

Con l’apporto sostanziale dei coloratissimi costumi firmati da Claudia Pernigotti, la ben nota “follia organizzata e completa” di cui alla definizione di Stendhal per il capolavoro comico giovanile di Rossini (Venezia, 1813) è proposta in maniera certamente rutilante, affollata, anche giustamente caotica. La fantasia è sbrigliata, ma raramente va oltre un repertorio piuttosto risaputo (e tradizionale: non è questione queer) di mossette, controscene, gesti e smorfie. Un armamentario che non libera quasi per niente la ricchezza teatrale – nel senso di azione recitata – che sola può dare un senso drammaturgico all’invenzione musicale rossiniana ancora teatralmente istintiva, per quanto travolgente all’ascolto. E bisognosa di qualità attoriali non banali, messe a fuoco o esercitate con sottigliezza e incisività ben diverse rispetto a quello che si è visto.
Qui in realtà non si è quasi mai andati oltre la maniera, e l’insolita chiave rappresentativa non ha risolto nella sua originalità la questione drammaturgica dell’Italiana, che oltre la tradizione ha del resto spesso faticato a trovare a Pesaro la formula decisiva. E basti pensare che una ventina d’anni fa la scatenata e sovraccarica fantasia applicata al dramma giocoso da Dario Fo (era il 2006: prima e unica ripresa di una produzione nata 12 anni prima) divise alla fine il pubblico fra ammirati e spazientiti. Da questo punto di vista, Rosetta Cucchi non ha avuto problemi: solo applausi per lei e la sua squadra, completata da Daniele Naldi per le luci.
Sul piano musicale, Dmitry Korchak, che ha una ventennale esperienza al ROF come tenore di alto livello, era alla seconda prova come bacchetta, dopo La cambiale di matrimonio in tempo di Covid del 2020. Per l’Italiana, alla testa dell’orchestra del Comunale di Bologna, la sua è stata una prova meno convincente. Tempi un po’ troppo anonimi, fraseggio non privo di accensioni ma soggetto talvolta a singolari spegnimenti, dinamiche senza troppe sfumature. Brillantezza intermittente, insomma, e comunque poco propensa a tenere adeguatamente presente il polo sentimentale, che è decisivo tanto quello comico-caricaturale.

Nella compagnia di canto, tutta l’attenzione era naturalmente per Daniela Barcellona, da trent’anni protagonista al ROF nel genere serio, quasi sempre come interprete en travesti, che si è travestita qui per le esigenza del progetto registico, sostenendo il ruolo da drag queen con il cipiglio grottesco ma divertito necessario, anche se talvolta la necessità di una sostanziale “doppia interpretazione” (quella aggiuntiva per le rivisitate caratteristiche del personaggio e quella “nativa” rossiniana nella linea di canto e nell’interazione con gli altri personaggi) ha finito per attestarsi su una linea mediana certamente accorta ma non così perspicua. Vocalmente, il controllo, lo stile e il colore sono ancora di esemplare qualità: il clou nella grande Aria di carattere “serio” del secondo atto, “Pensa alla patria”, cesellata nella linea di canto e nella coloratura. Al suo fianco, due voci basse entrambe provenienti dalla Georgia, interessanti ma diversamente gestite. Torrenziale e troppo poco controllata nelle dinamiche e nel fraseggio quella di Misha Kiria, un Taddeo da commedia all’italiana, sempre sopra le righe; molto elegante e magnificamente modellata sul piano tecnico e interpretativo quella di Giorgi Manoshvili, peraltro condotto dalle scelte registiche nei dominî di una sguaiataggine scenica agli antipodi della comicità implicita del personaggio. Lindoro era il tenore canadese Josh Lovell, voce chiara, interessante ma poco controllata nel fraseggio e nella coloratura. Puntuale ed efficace l’apporto dei comprimari: la svettante Elvira di Vittoriana De Amicis, l’ammiccante Haly di Gurgen Baveyan, la riguardosa Zulma di Andrea Niño. Impegnatissimo scenicamente, non senza necessità di qualche maggiore rifinitura, il coro del teatro Ventidio Basso di Ascoli istruito da Pasquale Veleno.
Per tutti, consensi durante la rappresentazione e alla fine.
Photo © Amati Bacciardi – Rossini Opera Festival
