Concerti

London Symphony, una sontuosa macchina sonora

L'inaugurazione del Settembre dell'Accademia Filarmonica di Verona, al teatro Filarmonico, ha avuto per protagonista la compagine inglese con il suo nuovo direttore artistico e musicale Antonio Pappano sul podio. Programma affascinante, fra l'omaggio a Šostakovič con la modernista Sinfonia n. 9 e la Quinta di Beethoven. Di scena anche il pianista Seong-Jin Cho nel secondo Concerto per pianoforte di Chopin, cesellato con trasparenze belcantistiche

Fra le tante possibili celebrazioni di Šostakovič, nel cinquantenario della morte, proporre la Sinfonia n. 9 significa da un lato sottrarsi alla discussione sempre un po’ speciosa sul patriottismo musicale vero o presunto del compositore sovietico; e dall’altro, offrire uno sguardo illuminante sulla vera natura dell’arte di questo gigante della musica del Novecento. Inizialmente progettata come “Sinfonia della vittoria” (fu eseguita per la prima volta il 3 novembre 1945), questa composizione conduce infatti, in realtà, in territori musicali molto lontani da quelli esplorati nelle due grandi opere precedenti, la Sinfonia n. 7, “Leningrado”, e la n. 8: partiture scritte in effetti durante la “Grande Guerra Patriottica” e fortemente connotate in senso “bellico” almeno sul piano del descrittivismo. Il lavoro successivo, non per caso radicalmente più breve dei due precedenti, lungi dal costituire la conclusione di una trilogia su questo soggetto, afferma invece l’insopprimibile originalità del pensiero musicale di Šostakovič nel rapporto fra la tradizione classica e la modernità del linguaggio novecentesco. I due riferimenti stilistici della partitura, il loro riferimento storico-culturale, sono Haydn e Stravinskij. Ma oltre ad essi, si afferma impetuosamente, si direbbe quasi sintomaticamente, la forza soggettiva di Šostakovič, che piega la nitidezza della forma a una complessità espressiva affascinante, nella quale l’elemento drammatico e quello brillante, venato di grottesco e di un umorismo a tratti quasi caricaturale, costruiscono un pensiero musicale tagliente, mutevole, per molti aspetti ambiguamente sfuggente. Il marchio della modernità personalissima di questo autore.

La Nona è stata scelta da Antonio Pappano per aprire il concerto della London Symphony Orchestra, che ha inaugurato a Verona la trentaquattresima edizione del Settembre dell’Accademia, in un teatro Filarmonico esaurito in ogni ordine di posti. Si è ascoltata un’esecuzione esemplare, in grado di esaltare la qualità di sontuosa macchina sonora della compagine londinese, senza peraltro mai escludere una riflessione interpretativa profonda sul lavoro di Šostakovič. Affascinanti l’equilibrio fra le parti, la multiforme ricchezza del colore, la brillantezza del fraseggio, con punte di autentico virtuosismo fra i legni. Avvincente la lettura di Pappano, capace di dipanare con eguale evidenza la trama formale classicistica e la ricchezza espressiva che fa del calco neoclassico stravinskiano solo un punto di partenza per le profonde e non poco spiazzanti meditazioni del compositore, che strizza l’occhio anche alla musica da cinema (della quale era peraltro un frequentatore illustre) ma va radicalmente oltre, vincendo la partita nello spiazzare l’ascoltatore.

All’altro capo della serata inaugurale campeggiava la Quinta di Beethoven, il capolavoro sempre a rischio di finire nella ragnatela della retorica esecutiva, nel nome dei molti equivoci storici che si affollano intorno alla sua inaudita novità rispetto alla tradizione classicistica. Pappano da questi equivoci si è tenuto esemplarmente a distanza, disegnando con il suo gesto nitidissimo (nel quale la rinuncia alla bacchetta è un plusvalore che regala straordinarie sfumature) una Quinta fremente eppure mai inutilmente magniloquente, definita nel rigore sorvegliato e coinvolgente di un fraseggio asciutto e vigoroso più che nelle esasperazioni dinamiche, di tempo e di fraseggio che sono frequente bagaglio della tradizione esecutiva “a effetto”. La LSO lo ha seguito in questa scelta esaltando il velluto dei suoi archi, la brillantezza degli ottoni, la ricchezza di dettagli coloristici nei fiati. Il risultato è stata una Quinta animata da vigorosi chiaroscuri e mai da inutili alterazioni metriche, nella quale la dialettica della forma sonata di tradizione – scolpita con profonda partecipazione – è stata sottolineata come la vera grande novità di questo capolavoro, nella realizzazione di una nuova forza espressiva tutta giocata sulla tensione implicita di un pensiero musicale che non è ancora romantico ma del romanticismo prefigura l’orizzonte.

Fra il sinfonismo di Šostakovič e quello di Beethoven, l’acerbo secondo Concerto per pianoforte di Chopin (in realtà il primo che scrisse, fra il 1829 e il 1830) ha offerto una straordinaria divagazione poetica, della quale si è incaricato il trentunenne pianista coreano Seong-Jin Cho, con sensibilità affinata nella lunga frequentazione di questo che è a tutti gli effetti un suo cavallo di battaglia, e che fra l’altro aveva proposto anche nella sua precedente apparizione al Filarmonico per il Settembre dell’Accademia, nel 2017.

Cho – per definizione specialista di Chopin dopo avere vinto il Concorso di Varsavia nel 2015 – individua giustamente nel Larghetto al centro del Concerto il cuore espressivo della composizione. Qui il suo tocco delicato e preciso, volto a definire un suono perlaceo e spesso trasparente, ha cesellato l’invenzione melodica chopiniana con autentica inflessione belcantistica – in misurato contrasto con il recitativo che a un certo punto interrompe con teatrale evidenza il fluire del canto affidato al pianoforte. Affettuoso ed elegante l’accompagnamento della LSO a organico ovviamente meno folto che per le due pagine sinfoniche. Impeccabile anche nel primo e nell’ultimo movimento l’equilibrio del dialogo con lo strumento solista, a delineare efficacemente la freschezza sognante un po’ ingenua del ventenne compositore alle prese con la forma del Concerto, che ben presto abbandonerà.

Tripudio per tutti i protagonisti della serata. Seong-Jin Cho è rimasto con il suo breve bis nell’ambito chopiniano, disegnando con luminosa freschezza digitale il popolarissimo Valzer op. 64. n. 1. Pappano e la LSO hanno ringraziato nel nome di Edward Elgar, cesellando con delicata partecipazione Nimrod, la più conosciuta delle Variazioni Enigma.

Antonio Pappano alla testa della London Symphony Orchestra al Filarmonico di Verona
Condividi questo articolo:
Facebook
WhatsApp
LinkedIn
Email