Eseguire tutti i Concerti per pianoforte di Beethoven in due serate a distanza di ventiquattr’ore – come hanno fatto Alexander Lonquich e l’Orchestra da camera di Mantova al teatro Filarmonico di Verona – significa affrontare una sorta di maratona. Questo era in effetti il sottotitolo della proposta inserita nel calendario del XXXIV Settembre dell’Accademia, peraltro chissà perché in inglese: “Beethoven Marathon”. Per il pubblico si è trattato di un’esperienza di ascolto poco comune lungo l’impetuoso e rivelatorio itinerario che l’arte beethoveniana disegna nel confronto con il genere “fondato” da Mozart pochi anni prima e in seguito destinato a una lunga e gloriosa persistenza nella musica europea, fino alla modernità.
Nell’impaginare il programma, il pianista-direttore non ha voluto costruire sottigliezze interpretative, collegamenti più o meno arcani fra le cinque composizioni. Come nella recente pregevole incisione per ECM con la Münchener Kammerorchester, ha scelto la successione cronologica. E dunque, la prima serata si è aperta con il Concerto in Si bemolle op. 19, secondo nella numerazione perché pubblicato successivamente, ma primo dal punto di vista creativo (1794-98). Di seguito, il Concerto in Do maggiore n. 1 op. 15 (1795) e il Concerto in Do minore n. 3 op. 37 (1800-03). La sera dopo, spazio al Concerto n. 4 in Sol maggiore op. 58 (1804-07) e gran finale con il cosiddetto “Imperatore”, il n. 5 op. 73 in Mi bemolle maggiore (1809).
L’arco cronologico dei Concerti è particolare. Le prime due composizioni risalgono all’ultimo decennio del XVIII secolo, con radici anche più antiche, quando il compositore doveva ancora trasferirsi a Vienna dalla natìa Bonn. Le altre tre rientrano nella fase centrale della grande esperienza creativa del “Titano”, quella che nel primo decennio del secolo nuovo vede affermarsi la grandiosa tensione soggettiva di pagine che diventeranno di lì a qualche decennio le fondamenta ideali dello spirito romantico, pur se sono ancora saldamente ancorate alla forma classica.
La cesura stilistica fra i primi due Concerti e gli ultimi tre emerge dall’esecuzione integrale con evidenza inequivoca. Quando Beethoven, poco più che ventenne, cominciò ad affrontare questo genere, probabilmente accarezzava l’idea di affermarsi come pianista-compositore. Cioè come virtuoso della tastiera che provvedeva personalmente a scrivere i pezzi con cui intrattenere un pubblico crescente e sempre più desideroso di novità. Solo i primi due Concerti, però, furono creati in questa logica. E furono eseguiti dal musicista, in qualche caso ripetutamente, anche nel corso di “tournée” che lo portarono a Praga, Dresda, Lipsia e Berlino. In seguito, la sua potente e insopprimibile vocazione creativa assoluta, ma anche la sordità incipiente, crescente e infine disperante, che rendeva sempre più problematica l’attività esecutiva, decisero altrimenti. Con il Terzo Concerto si entra in una dimensione diversa, che segna l’inizio di un percorso nuovo nel confronto con la lezione mozartiana più profonda (il modello evidente è il prediletto Concerto K. 491 in Do minore, 1786, uno degli unici due in modo minore del salisburghese e il più drammatico). Non a caso, le esecuzioni del Terzo da parte di Beethoven avvennero in contesti un po’ diversi da quelli tipici del pianista-compositore: solo a Vienna, e nell’ambito di “accademie” monografiche, immerso in programmi tanto vasti quanto articolati e dedicati a generi multipli. Così sarebbe accaduto anche per il Quarto, che segna il culmine assoluto dell’esperienza beethoveniana nell’ambito del Concerto per pianoforte e che sarà anche l’ultimo ad essere suonato dallo stesso compositore. Dopo il Quinto, che mai l’autore eseguì pubblicamente, il Concerto per pianoforte e orchestra uscì dagli orizzonti di Beethoven. Forse anche perché la concezione che ne aveva il musicista legava strettamente il fatto creativo e quello esecutivo. Ma il secondo gli era precluso.

Non è semplificatorio, insomma, dire che i due primi lavori sono legati a una chiara eredità stilistica ed esecutiva, mentre gli altri tre rappresentano la riflessione beethoveniana su un genere alla moda, animata da una forza e da una inventiva creativa che mai il cosiddetto “Concerto Biedermeier” sarebbe riuscito nei decenni successivi nemmeno ad avvicinare, nonostante le acrobazie virtuosistiche a cui molti autori oggi dimenticati indulgevano per compiacere i gusti del pubblico. Sarebbero stati Schumann e soprattutto Brahms a raccogliere l’eredità beethoveniana, intesa specialmente riguardo alla dialettica proficua e affascinante fra lo strumento solista e l’orchestra.
Di questa netta bipartizione, Lonquich ha offerto nelle due serate un’evidente sottolineatura, con l’elemento comune di una multiforme qualità strumentale. Analogamente, l’Orchestra da camera di Mantova, formazione coesa, equilibrata e duttile, ha saputo “regolare” il proprio apporto – in sintonia con il preciso gesto di Lonquich in quanto direttore –in funzione delle caratteristiche stilistiche delle partiture. Così, nel Primo e nel Secondo Concerto il suono orchestrale è risultato incisivo ma essenziale, articolato nei dialoghi con i fiati in maniera più schematica – anche dal punto di vista dinamico – rispetto a quanto avviene negli altri tre Concerti. E il pianoforte è stato trattato da Lonquich con l’asciuttezza di tocco necessaria a sottolineare sì le brillanti invenzioni del compositore, senza nasconderne però la scrittura un po’ di maniera, all’insegna di un virtuosismo esteriore che peraltro specialmente nel Concerto n. 1 raggiunge momenti notevoli.
Con il Concerto n. 3, il discorso cambia radicalmente e gli esecutori hanno saputo rendere conto del clima espressivo e formale diverso con plastica evidenza. L’Orchestra di Mantova ha quindi irrobustito il suono degli archi, esaltando al contempo l’ottima disposizione dei legni, utile anche a rendere meno evidente qualche intermittenza negli ottoni, con i corni e le trombe naturali che qualche problema di chiarezza timbrica e precisione l’hanno posto. Di questo Beethoven che va infine oltre Mozart e disegna il suo personalissimo mondo sonoro, Lonquich si è reso tramite con grande forza musicale, trovando un suono sempre motivatamente ricco, sostenuto da un fraseggio concentrato, introspettivo eppure di alta qualità comunicativa.
La tradizione interpretativa del Classicismo, così com’era stata delineata dalla scuola tedesca durante il Novecento, trova in questo pianista un aggiornamento di seducente eleganza, che sfronda ogni concessione retorica all’insegna di una notevole, mai banale sottigliezza nel tocco. Lo si è constatato ascoltando il Concerto n. 3, se ne è avuta una conferma nel Concerto n. 4, forse il punto più alto dell’intera maratona, grazie a una prova che ha saputo illuminare i dettagli che fanno di questo il capolavoro assoluto di Beethoven nel genere concertante. Esecuzione di poesia raffinata e profonda, quella di Lonquich e dei mantovani, per le sfumature del tocco nel pianista, per l’eloquente profondità dei dialoghi intrattenuti dall’orchestra all’interno delle sezioni strumentali e specialmente con il solista. Non analoga forza interiore è sembrato raggiungere il Concerto n. 5, tuttavia proposto meritevolmente sfrondato di troppo accentuate sottolineature declamatorie, propenso a una linea esecutiva che ha evidenziato con misura la dimensione quasi sinfonica della parte orchestrale e la corposità rigogliosa ma non superficiale della scrittura pianistica.
Pubblico vicino al tutto esaurito in entrambe le serate. Un po’ a sorpresa, dato il contesto, Alexander Lonquich non si è sottratto al rito dei bis, in entrambe le serate andando a sottolineare le radici della scrittura concertante in Beethoven. Dopo il primo programma è stato così riproposto con trasparente effervescenza il Rondò del Concerto n. 2; dopo le perorazioni del cosiddetto “Imperatore” (uno dei titoli apocrifi più incongrui nella biografia beethoveniana), è stata la volta della trascinante esultanza su ritmi differenziati del Finale del Concerto n. 1. Come ulteriore suggello, in solitudine, una delle ultime parole beethoveniane per il pianoforte, la Bagatella n. 6 dell’op. 126, con il suo tenero “Andante amabile”.
Photo © Studio Brenzoni – Accademia Filarmonica di Verona