Opera

Il promettente primo passo di Puccini sul palcoscenico

"Le Villi", opera-ballo presentata al Dal Verme di Milano nel 1884, primo titolo del compositore lucchese, in scena al Filarmonico di Verona con la regia di Pier Francesco Maestrini. Il lavoro giovanile doveva essere rappresentato nel 2020 in accoppiata con "Il Tabarro", ma il Covid ha fatto cadere quel progetto. Una partitura giustamente definita "una splendida avvisaglia", fra suggestioni scapigliate e tracce di un sinfonismo di matrice wagneriana. Positiva la direzione di Alessandro Cadario, equilibrato il trio dei protagonisti vocali, formato dal tenore Galeano Salas ,dal soprano Sara Cortolezzis e dal baritono Gëzim Myshketa

Nella tarda primavera del 2020 Le Villi di Giacomo Puccini erano attese al debutto veronese nel Teatro Filarmonico in una nuova produzione che affiancava l’opera del debutto assoluto sulle scene del compositore toscano (Milano, Teatro Dal Verme, 31 maggio 1884) a una delle sue ultime, l’atto unico Il tabarro. Era una scelta raffinata e intrigante, anche perché era stato proprio il compositore ad accarezzare nel 1917 l’idea di recuperare il suo primo titolo unendolo in un dittico a quello che allora era il suo ultimo. All’epoca non se ne fece nulla, cinque anni fa il Covid ha disposto altrimenti. Così, il momento delle Villi è giunto domenica scorsa, quando infine la giovanile “opera-ballo” è stata rappresentata come penultimo spettacolo della stagione che festeggia il cinquantennale della Fondazione Arena nel teatro veronese ed è iniziata nel nome di Salieri e del suo Falstaff.

Nel frattempo, l’idea del dittico si è persa per strada. Ne sarà contento il sottosegretario alla Cultura, il veronese Gian Marco Mazzi, che in una dichiarazione in video di circa quattro minuti (per vederla, cliccare qui), risalente presumibilmente all’estate 2023 ma circolata anche recentemente sui social network, elargisce alle Fondazioni lirico-sinfoniche il caldo suggerimento di evitare spettacoli troppo lunghi allo scopo di agevolare l’interesse del pubblico giovane. Primo passo, secondo Mazzi, “smontare” appunto i dittici – a partire dal più noto e comune, quello formato da Cavalleria rusticana e I pagliacci. Il coordinatore del nuovo Codice dello spettacolo, che vedrà la luce l’anno prossimo, non dice che cosa dovrebbero fare le Fondazioni per evitare tutte le altre “lungaggini melodrammatiche”, che sono largamente prevalenti dentro e fuori dal repertorio. Possiamo immaginare la preoccupazione della sovrintendente dell’Arena, Cecilia Gasdia: nell’anfiteatro romano di Verona non c’è serata operistica che duri meno di quattro ore… Ma del resto, il problema originario dell’opera – si sente dire nel suddetto video – è di essere nata nell’ambito di una società pre-elettrica. E il canto – Mazzi dixit – con l’avvento dell’elettricità è diventato tutta un’altra cosa.

Le Villi da sole, dunque: 65 minuti di musica divisi da un intervallo di 20, per uno spettacolo della durata complessiva di un’ora e mezzo scarsa. Al cinema capita sempre più spesso di stare seduti quasi il doppio del tempo, e senza pause. Ma si sa, la settima arte è nata in una società elettrica.

Dice bene Fabio Sartorelli, che ha tenuto su invito della Fondazione Arena una conversazione a proposito di questo lavoro qualche giorno prima del debutto: l’operina dell’esordio pucciniano è “una splendida avvisaglia”. Ed è anche – considerando le sue vicende compositive (riassunte puntualmente nel saggio firmato sul programma di sala da Fabio Larovere) – un titolo al quale l’autore teneva molto, se è vero che per quasi un decennio, fino a Manon Lescaut (1893), vi ha posto mano in varie occasioni: aggiustando, aggiungendo, togliendo. E poi, un quarto di secolo più tardi, come si diceva, ancora pensava di offrirgli nuove occasioni, visto che non rientrava nel canone dei successi pucciniani, anche se le apparizioni non solo italiane fino a un certo punto non erano mancate.

Gëzim Myshketa, Sara Cortolezzis e Galeano Salas

La partitura ha una fragilità drammaturgica non contestabile, nella quale lo sperimentalismo scapigliato del librettista Ferdinando Fontana ha un ruolo preminente. Al suo interno, però, il “piglio” di Puccini – magari per effetto della sua presenza totalizzante nel gusto melodrammatico, frutto di una primazia senza eguali e senza segni di eclissi nella “top ten” delle opere più rappresentate nel mondo – appare già chiaro. Lo si nota non solo nelle poche pagine solistiche per i tre personaggi, ma anche nelle scene corali, che offrono una certa ampiezza di linguaggi musicali, dal genere mondano nel valzer del primo atto a quello fantastico del finale del secondo atto, quando il protagonista Roberto, traditore della fidanzata Anna nella tentacolare Magonza, dov’è dovuto recarsi dallo sperduto villaggio della Foresta Nera in cui ha lasciato la promessa sposa, soccombe alla vendetta delle Villi, le fantasmatiche vendicatrici delle fanciulle abbandonate.

L’impulso melodico ben noto agli appassionati è già evidente, anche se ancora non si distende in forme drammaturgicamente coinvolgenti, la scrittura orchestrale è già ricca. Questo aspetto viene esaltato nelle due pagine solo strumentali che aprono il secondo atto, gli Intermezzi intitolati “L’abbandono” e “Tregenda”. Un evidente omaggio del non ancora trentenne compositore lucchese al nume tutelare di Bayreuth, luogo in quegli anni di alcuni suoi devoti pellegrinaggi in compagnia del direttore d’orchestra veronese Franco Faccio. Che poi, il “wagnerismo” di Puccini è comunque mediato da uno spirito inconfondibilmente mediterraneo, se è vero che l’essenza ritmica della “Tregenda” è quella – peraltro molto coinvolgente – di una Tarantella.

Lo spettacolo visto al Filarmonico proveniva dal Regio di Torino. Il regista Pier Francesco Maestrini sceglie un’ambientazione essenziale, caratterizzata cronologicamente dai costumi di Luca Dall’Alpi, più o meno collegati all’epoca della composizione. Lo scenografo Juan Guillermo Nova è anche autore delle proiezioni video che delineano il contesto naturalistico, centrale nella vicenda; le luci sono di Bruno Ciulli, i parchi movimenti mimici di Michele Cosentino. Oltre il cupo sfondo boscoso, spesso “raccontato” mentre nevica, l’elemento fantastico è riservato solo al finale, quando le Villi portano a morte Roberto in una ridda fatale. Le misteriose creature sarebbero di scena anche durante la Tregenda, ma in questo allestimento, piuttosto incongruamente, l’esecuzione di questa fremente pagina sinfonica si svolge durante una sorta di orgia nella quale il protagonista si lascia coinvolgere a Magonza, causa della sua perdizione.

Musicalmente, esecuzione di netta impronta sinfonica. Il “sinfonismo” fu l’addebito che molti critici fecero a Puccini quando l’opera apparve per la prima volta ed è sicuramente caratteristica precipua della partitura. La concentrata direzione di Alessandro Cadario ha giustamente sottolineato questo aspetto, grazie a un fraseggio ricco di sfumature, dinamicamente ben articolato, timbricamente stagliato come si conveniva, anche ritmicamente coinvolgente. Nell’insieme, una lettura in grado di far capire il motivo per cui Casa Ricordi decise di puntare su quel giovane proveniente dalla Toscana. In scena, il tenore Galeano Salas (Roberto), il soprano Sara Cortolezzis (Anna) e il baritono Gëzim Myshketa (Guglielmo Wulff, padre di Anna) hanno delineato le loro sintetiche parti con linea di canto di buona impostazione stilistica, trovando quasi sempre il punto di equilibrio fra lirismo e drammaticità. Puntuale, dopo qualche iniziale imprecisione, e di buona presenza scenica il coro istruito da Roberto Gabbiani.

Alla prima teatro quasi al completo e pubblico alla fine prodigo di applausi e chiamate.

Foto © Ennevifoto – Fondazione Arena di Verona

Una scena del secondo atto di “Le Villi”. A destra il tenore Galeano Salas

 

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