Opera

La clemenza di Tito, Mozart “archivia” l’opera seria

L'ultimo titolo del salisburghese ha inaugurato la stagione della Fenice. Elegante la regia di Paul Curran, brillante la direzione di Ivor Bolton. Compagnia di canto di buon livello, con Anastasia Bartoli (Vitellia) e Cecilia Molinari (Sesto) in grande evidenza. Dopo la serata inaugurale, lancio di volantini in sala per esprimere solidarietà ai lavoratori della Fenice nella vertenza-Venezi

Nonostante l’impegno di storici e musicologi, gli ultimi mesi di Mozart restano avvolti nell’indecifrabilità. Non si dice delle leggende più o meno fantasiose intorno all’incompiuto Requiem o delle indagini sulle cause della morte. È complicata e lungi dall’essere chiarita definitivamente anche la storia della commissione e della composizione della sua ultima opera, La clemenza di Tito, che andò in scena al Teatro Nazionale di Praga il 6 settembre 1791, a conclusione della giornata che vide l’incoronazione dell’imperatore Leopoldo II a re di Boemia. La versione più accettata dei fatti dice che Mozart mise a punto la partitura nel giro di 18 giorni: effetto di una commissione forse rimasta in sospeso più a lungo (ed esistono lettere di Antonio Salieri in cui il legnaghese racconta che l’impresario Domenico Guardasoni, che gestiva la produzione, si era rivolto più volte a lui, ma che aveva declinato per mancanza di tempo…), ufficializzata solo verso la metà di luglio. A mescolare le carte, in una partita giocata con tutti i mezzi delle moderne indagini, a partire dalla filigrana dei tipi di carta usati dal salisburghese, c’è la possibile esecuzione di almeno parte della pagina forse più famosa della partitura, il Rondò di Vitellia “Non più di fiori”, con corno di bassetto obbligato, nel corso di un concerto tenuto a Praga nel primavera del 1791. Il che ha aperto discussioni non solo sulla data reale di composizione di tutta l’opera, ma sulla natura e il significato degli auto-imprestiti in Mozart.

La scelta del soggetto era scontata: il libretto di Metastasio, musicato per la prima volta da Caldara nel 1734 in onore del nonno di Leopoldo II, l’imperatore Carlo VI, appare ideale dal punto di vista celebrativo anche oltre mezzo secolo più tardi. E anzi, sembra perfino politicamente “aggiornato” rispetto alle convinzioni “illuminate” del nuovo monarca, da questo punto di vista decisamente più avanzato del fratello di cui aveva preso il posto, Giuseppe II. Oltre che attuale in maniera perfino drammatica nel mondo odierno.

Peraltro, a un aggiornamento fu sottoposto anche il lavoro del poeta cesareo per eccellenza nel ‘700. Nel catalogo delle sue composizioni, che puntigliosamente Mozart teneva negli ultimi anni, si legge infatti che La clemenza di Tito era stata “ridotta a vera opera dal sig. Mazzolà, poeta di Sua Altezza Serenissima l’Elettore di Sassonia”. L’intervento di Caterino Mazzolà appare decisivo: i tre atti di Metastasio diventano due, i recitativi sono sfoltiti, soprattutto la lunga serie di Arie in eleganti endecasillabi e settenari del poeta cesareo diventa una ben più sapida alternanza di passaggi solistici e di duetti, terzetti e concertati, in dosato equilibrio numerico. Le modifiche sono funzionali alla trasformazione della gloriosa ma vetusta opera seria all’italiana, nell’ultimo periodo della sua storia quasi secolare, con dispositivi drammaturgici che in qualche modo mutuano gli elementi fondanti dell’opera buffa, ovvero della commedia per musica, nella quale del resto Mozart aveva dato solo pochi anni prima esempi inarrivabili con la collaborazione di Lorenzo Da Ponte.

Scelta ormai non estranea al mondo operistico non solo  viennese, se è vero, ad esempio, che già nel 1784 Domenico Cimarosa aveva composto per l’inaugurazione del vicentino Teatro Eretenio una Olimpiade nella quale un altro sfruttatissimo libretto metastasiano passava da tre a due atti e veniva innervato (da un autore rimasto peraltro sconosciuto) con una ricca serie di numeri d’insieme (l’opera è stata riesumata proprio a Venezia nel dicembre del 2001 al teatro Malibran, in uno spettacolo con la regia di Dominique Poulange e la direzione di Andrea Marcon).

Che l’abbia scritta in poco più di due settimane, quando già la sua salute stava declinando, lavorando anche durante il viaggio per Praga nella seconda metà di agosto (quattro giorni di carrozza) o che avesse già iniziato a pensarla qualche mese prima, La clemenza di Tito sarebbe stata comunque destinata a una fortuna tutt’altro che univoca. Apprezzata nei primi anni dopo la morte del compositore, poi relegata non solo ai margini del repertorio ma anche nel limbo delle opere meno riuscite, e specialmente all’ombra del grande capolavoro nel genere serio del salisburghese, Idomeneo, che risale a dieci anni prima. Un raffronto probabilmente scontato ma in realtà improprio, appunto in considerazione della diversa connotazione formale e quindi drammaturgica dell’ultimo lavoro. Nel quale, in ogni caso, si affermano una nobile ricchezza di linguaggio, un’intensità nella scrittura vocale che è ormai ben oltre le acrobazie virtuosistiche del belcanto, un rigoglio concertante che diventa a sua volta elemento teatrale in quanto tale: tutti elementi che servono ad andare oltre la già neoclassica “sentenziosità” delle situazioni, favorendo l’evidente tentativo di rinnovare il rapporto fra i personaggi, facendoli uscire dalla fissità del contesto encomiastico.

Approdata per la prima volta alla Fenice soltanto nel 1973 – a proposito degli incerti di fortuna di questo titolo… – La clemenza di Tito ha inaugurato la stagione 2025-26 del Gran Teatro veneziano con quello che è il terzo allestimento in Laguna dopo quelli firmati da Pierluigi Pizzi nel 1986 e da Ursel Hermann nel 2014 (la prima esecuzione era in forma di concerto, affidata a Charles Mackerras). Il futuro dirà se questa apparente maggiore frequenza nel XXI secolo sarà conservata.

Anastasia Bartoli (Vitellia) e Cecilia Molinari (Sesto)

Lo spettacolo era firmato da Paul Curran (scene e costumi Gary McCann, luci Fabio Barettin) all’insegna del rigore e della raffinatezza vagamente trasognata che è a ben vedere una delle caratteristiche salienti della partitura mozartiana. Ambientata in un presente non precisamente identificato, la vicenda si svolge all’interno di un’elegante galleria di antichità romane: più che un palazzo imperiale, un museo tutto marmi bianchi finemente illuminati, decorato con bassorilievi e statue, che subisce la sorte del Campidoglio nel finale dell’atto primo dell’opera e finisce ridotto in macerie dopo l’incendio causato dalla sommossa contro Tito Vespasiano, guidata dal suo grande amico Sesto su istigazione di Vitellia. La regia segue i personaggi con attenzione, scavando nella loro dimensione psicologica anche oltre la monotonia un po’ inevitabile dei recitativi secchi. L’unica divagazione riguarda il ritorno di Tito in scena nel secondo atto: è scampato al complotto ed è illeso, ma comunque Curran lo costringe in un letto mobile letto d’ospedale. Nell’insieme, però, spettacolo intrigante quanto elegante, che saggiamente rifugge da tentazioni neoclassiche per focalizzare la drammaturgia sull’universalità delle istanze rappresentate dai personaggi.

Di notevole livello l’esecuzione musicale. Ivor Bolton disegna dal podio l’ultimo Mozart in un sapiente intreccio di brillantezza, esteriorità anche mondana (brillanti le marce), pensosa riflessione interiore. Il fraseggio è agile e ricco di chiaroscuri, i tempi inclini alla stringatezza senza che questo faccia corre il rischio della superficialità, i colori magnificamente cesellati. L’orchestra della Fenice è stata protagonista di una prova di assoluto livello per ricchezza e dettaglio di suono in tutte le sezioni e per chiarezza stilistica. Sugli scudi – ma altri strumentisti meriterebbero di essere citati – il clarinettista Vincenzo Paci nella grande Aria di Sesto al primo atto e Nicolas Palombarini al corno di bassetto per le seduzioni melodiche di Vitellia nel Rondò in sottofinale.

Nicolò Balducci (Annio) e Daniel Behle (Tito)

Compagnia di canto di tutto rilievo. Il tenore Daniel Behle ha saputo infondere alla maniera che spesso avvolge le Arie di Tito Vespasiano la qualità di una linea di canto sorvegliata e convincente, capace di scalare con efficacia i picchi di agilità richiesti nel secondo atto. Il controtenore Nicolò Balducci ha conferito consapevolezza stilistica e densità espressiva ad Annio, il basso Domenico Apollonio è stato un Publio intenso e partecipe, Francesca Aspromonte una Servilia trepida e commossa.

Quanto alle due primedonne, che si sono spartite le pagine vocali più affascinanti dell’opera, Anastasia Bartoli ha dato al ruolo di Vitellia la duttilità necessaria a fare emergere le contraddizioni e gli intimi contrasti che attraversano il personaggio, affermando anche in Mozart la ricchezza di una voce magari a volte un po’ spinta verso la forzatura nella zona alta della tessitura, ma capace di una mobilità espressiva rilevante e convincente, sempre intrigante nel taglio drammatico. Esemplare e decisiva la sua sensibilità attoriale. Cecilia Molinari, al debutto come Sesto, si è proposta con eleganza raffinata, delineando intera nella sua sofisticata linea di canto la gamma espressiva di un personaggio che pur nell’aulicità del contesto risulta il più vicino all’umanità contradditoria ed emozionante tipica dei capolavori su libretto di Lorenzo Da Ponte. Concentrato e attento il coro istruito da Alfonso Caiani.

Dopo la generale, a cui si riferiscono queste note, consensi vivissimi per tutti i protagonisti dello spettacolo. Come riportano le cronache, altrettanto è accaduto alla prima, non senza il corollario della pioggia finale di volantini lanciati dal loggione per esprimere solidarietà all’orchestra e alle maestranze della Fenice, impegnate da mesi in una difficile vertenza dopo la nomina di Beatrice Venezi come direttrice musicale dall’autunno 2026. Su questa nomina, inappropriata nel metodo e problematica nel merito, prosegue il muro contro muro fra il sovrintendente Colabianchi (con il consiglio di indirizzo presieduto dal sindaco Brugnaro) e tutti i dipendenti della Fondazione lirico-sinfonica veneziana, sostenuti dalla solidarietà dei colleghi di tutti i teatri d’opera italiani e di un vasto pubblico di appassionati.

Foto © Michele Crosera – Fondazione Teatro La Fenice

Una scena del secondo atto della “Clemenza di Tito” di Mozart alla Fenice
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