La prima “scatola” è fatta di pannelli tipo plexiglass ai lati, quasi vetrate sullo sfondo. Oltre, s’intravvedono cieli e nuvole, ali d’angelo, monumenti celebrativi; di fianco, apparentemente, frammenti di statue, macerie di antiche civiltà. La seconda “scatola”, calata a scena aperta fino a sovrapporsi alla prima (non senza un rumore dei verricelli elettrici poco compatibile con le esigenze di un’esecuzione vocale-strumentale), ha tutto l’aspetto delle schede madri dei computer: tre pareti fitte di circuiti stampati attraversati da barbagli luminosi. La terza “scatola” è un cubo nero più piccolo, che a sua volta cala dall’alto e ha la parete dal lato della platea che mostra l’interno ma può diventare uno specchio. Dentro a questo spazio alla fine del terz’atto vediamo un personaggio che dovrebbe essere Carlo Magno, visto che la scena si svolge nell’avello di Aquisgrana che conserva la sua tomba. Ma anche numerosi mimi-danzatori-attori di bianco vestiti. Il suo simbolismo mortale è definitivamente sancito alla fine della rappresentazione: quando il protagonista, Ernani, mantiene infine il giuramento fatto al truce Silva, suo concorrente amoroso e nemico politico, e si toglie la vita, è lì dentro che si sposta. Per la cronaca, il bandito in realtà di nobile lignaggio, primo bel tenebroso del catalogo verdiano, non si trafigge con un pugnale: strappa la pagina di un libro che andava maneggiando da quando era cominciato il quarto atto, la appallottola e la getta a terra. All’inizio dell’opera, i libri erano numerosi, posti a proscenio durante la Sinfonia; in altri momenti li vediamo ammonticchiati, ovvero tenuti in mano dalla piccola folla di figuranti-coristi quasi sempre presenti in uno spettacolo notevolmente affollato.
Quando un allestimento è firmato da Stefano Poda, come l’Ernani al debutto domenica al Teatro Filarmonico, di cui abbiamo tentato una descrizione scenografica solo molto parziale, farsi domande viene spontaneo ma il più delle volte è inutile. Né per la verità aiutano più di tanto le ampie note di regia di cui è prodigo il regista – come sempre anche scenografo, costumista e light designer – ormai di casa a Verona, dove in tempi recenti ha firmato in Arena un’Aida e un Nabucco. Scrive Poda, dopo ampie digressioni sul senso dell’arte lirica di Verdi in relazione allo storico dramma di Victor Hugo, occasione di furenti contrasti fra romantici e classicisti all’epoca della sua prima apparizione nel 1830: «Il palcoscenico sarà quindi diviso in due mondi: un bassofondo di rovine, materico, organico, abbandonato al suo passato, eppure luminoso. Di contro a uno spazio astratto, inesplorato, tecnologico, moderno però oscuro: quello dell’innovazione, che apre porte sconosciute. Innovazione tanto cara sia a Hugo che a Verdi, così cara anche ai nostri giorni, eppure così inafferrabile nel suo rapporto col passato». Seguono concettose e un po’ astratte argomentazioni su ciò che è necessario per la crescita del genere operistico. Il concetto di base, apodittico com’è di moda oggi, sembra essere il seguente: «Il grande insegnamento dell’opera lirica è la sintesi fra gli opposti, la tensione fra gli estremi che si appiana solo grazie al mistero dell’arte».
Resistiamo alla tentazione di chiederci: e perché mai? E annotiamo che oltre la fantasia tecnologica vagamente distopica della scenografia (per dire, in qualche momento a un cinefilo potevano venire in mente certe scene “terrestri” di Interstellar di Christopher Nolan), lo spettatore non particolarmente desideroso di realizzare sintesi fra gli opposti faticava a seguire la torbida e tormentata vicenda storico-amorosa che Verdi nel 1844 aveva sussunto dalla pièce di Victor Hugo per farne la tappa forse più significativa dei suoi “anni di galera”. Ernani è infatti una fucina di elaborazioni formali che assumono una significativa densità drammaturgica nuova, all’interno delle strutture musicali allora dominanti (il rapporto Aria-Cabaletta, ad esempio) o nella permeabilità fra pezzi solistici e d’insieme.

Per dire, era plausibile che Elvira, la bella contesa fra un re, un Grande di Spagna e un bandito, che poi è il suo favorito, cantasse l’Aria celeberrima in cui proclama “Ernani, involami” avviluppata in un groviglio di lacci che le impediscono quasi i movimenti, letteralmente tenuta al guinzaglio da decine di figuranti. Ma la trovata rimane per così dire senza seguito, non è sviluppata se non dal punto di vista dell’immagine, della rappresentatività astratta delle idee molto personali del regista, che spesso non si preoccupa nemmeno di inserirle in un contesto drammaturgico coeso. È il caso della “cabaletta rotante” di Silva al primo atto. Il “vilain” è trasportato in cerchio da una pedana semovente, di cui Poda fa un uso fin troppo frequente, e pistola alla mano (le armi sono l’unica cosa “attuale” dello spettacolo), con mira infallibile ammazza decine di figuranti, che crollano fulminati. E mentre si assiste alla mattanza viene da chiedersi cosa accadrà quando l’auspicata vendetta (questo invoca il personaggio) diventerà reale. Ma quello rimane il momento più (astrattamente) sanguinario di tutto lo spettacolo. Quanto ai libri, le note di regia nulla dicono, restano le congetture di cui facciamo grazia al lettore.
In definitiva, si esce da teatro con molti punti interrogativi non solo e non tanto su quello che si vede, ma su quello che accade e sui motivi per cui accade, a prescindere dall’ambizione di Poda di «mostrare l’eterno conflitto fra antico e moderno (…) con una visione distaccata, artistica». In effetti, spesso gli spettacoli del regista trentino hanno qualcosa dell’installazione fine a sé stessa. Ma con questo Verdi estremamente promettente per quanto non di rado ancora acerbo, ci voleva forse un po’ più di cuore (non necessariamente in una ricostruzione tradizionale, anzi) e una visione meno distaccata, soprattutto meno astrusa.
Un certo distacco è stato anche quello che dal podio ha proposto Paolo Arrivabeni. Esecuzione controllata, la sua, anche precisa, ma come sospesa fra le possibili soluzioni interpretative: né propensa ad esagerate accensioni cabalettistiche, né incline a sottolineature protoromantiche, timbricamente anche ben delineata (attenta l’orchestra areniana) ma per molti aspetti incline a un fraseggio “in sicurezza”, lontano sia dall’enfasi lirica che dalla tensione drammatica, con una corrispondente genericità nella gamma dinamica.
La compagnia di canto aveva nel baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat la sua punta di diamante. Interprete verdiano già ben noto al pubblico areniano (è ormai il Nabucco e l’Amonasro di riferimento), al suo debutto al Filarmonico ha proposto un Don Carlo introspettivo e dolente, di nobile magnanimità, riflessa in una linea di canto ben controllata e assai articolata, anche se il suo colore vocale è forse un po’ troppo scuro per una parte dalle molte sfumature espressive. Meno convincenti l’Ernani di Antonio Poli e l’Elvira di Olga Maslova, per la genericità dell’espressione e la qualità non omogenea dell’emissione; caratteristiche rese più evidenti da una situazione nella quale, quando i cantanti erano chiamati a proporsi in posizione arretrata sul palcoscenico dovevano fare in conti con una situazione acustica tutt’altro che ideale. A Silva ha dato voce con feroce rancore Vitalij Kowaljow. Nelle parti di fianco si sono disimpegnati con adeguata presenza Elisabetta Zizzo (Giovanna) Saverio Fiore (Don Riccardo) e Gabriele Sagona (Jago). Protagonisti e comprimari, tutti hanno dato prova di notevole professionalità nel corrispondere alla gestualità un po’ ieratica e un po’ rituale richiesta dalla regia. Tutti sono stati protagonisti di una prova in crescita nel corso dello spettacolo.
Il coro istruito da Roberto Gabbiani, compagine di indiscutibile lignaggio verdiano, non è sembrato qui come altre volte preciso negli attacchi e nell’equilibrio fra le sezioni, e ha risentito anch’esso delle problematiche acustiche.
Alla prima domenicale (lo spettacolo chiudeva la stagione 2025 al Filarmonico di Fondazione Arena di Verona) il pubblico era folto e assai ben disposto, non senza una claque alquanto attiva. Alla fine, le migliori accoglienze sono state per Enkhbat, ma cordiali applausi hanno ricevuto anche tutti gli altri. Sonori dissensi quando è apparso a proscenio il regista Stefano Poda.
Foto © Ennevifoto – Fondazione Arena di Verona
