Se Vladimir Jurowski, alla testa dell’orchestra di Radio Berlino, aveva scelto per l’inaugurazione del Settembre dell’Accademia Filarmonica un programma complesso quanto insolito, il violinista e direttore Joshua Bell e l’Academy of St. Martin in the Fields hanno puntato – nel presentarsi al teatro Filarmonico di Verona per il secondo appuntamento del festival – su una serata interamente di “greatest hits”. Mettere insieme pagine popolarissime come l’Ouverture Egmont e la Settima Sinfonia di Beethoven intercalate dal Concerto per violino di Cajkovskij, può sembrare un modo per andare sul sicuro. Eppure, le insidie di un programma di questo genere sono tali da rendere l’operazione molto meno tranquilla di quel che sembra, al di là del gradimento del pubblico, che ha ritrovato composizioni familiari perché saldamente incastonate nel repertorio, come non si poteva certo dire dei brani inaugurali, dal Concerto per violino di Bartók alla Quinta di Mahler.
Di fatto, per Bell e la formazione londinese – tornata per la quinta volta dall’ormai lontano 1989 a suonare per l’Accademia Filarmonica – si trattava di una sfida, specialmente sul versante beethoveniano. Affrontare Egmont e la Settima senza un organico autenticamente sinfonico, dato che l’Academy contava meno di 40 elementi (otto violini primi e soprattutto solo quattro violoncelli e due contrabbassi), significava portare il discorso su problematiche interpretative assai complesse. Rese anche più delicate dal fatto che Bell nella circostanza ha “concertato” continuando a sostenere il ruolo di primo violino di spalla, come non avveniva che raramente già ai tempi di Beethoven.
Sfida vinta, bisogna dire. E da tutti i punti di vista. Il violinista-direttore e la sua Academy hanno infatti sfoderato un’esecuzione davvero accattivante, che ha entusiasmato il pubblico che affollava il Filarmonico. Ricca sul piano del suono, a sottolineare l’eccellenza di questa formazione in tutte le sue sezioni (ma una parola in più bisogna spendere per sottolineare la qualità, la ricchezza e la precisone proprio dei fondamentali archi bassi); stilisticamente convincente nel solco di una gloriosa tradizione che da lungo tempo – anche prima dell’affermazione delle tendenze di carattere “filologico” – vede brillare un Beethoven “all’inglese” fatto di chiarezza, ricchezza di colori, varietà di fraseggio con tempi spediti e dinamiche ben stagliate. Una linea caratteristica, di alta dignità esecutiva, anche se lontana da certe filosofiche profondità della tradizione germanica.

Che poi, l’intensità non è certo mancata, come hanno chiarito le battute iniziali dell’Egmont, di teatrale espressività, e come ha confermato l’energia che ha attraversato tutta la Settima, all’insegna di un controllo e di una qualità di suono senza ombre. Minuziosi i dettagli nel celeberrimo “Allegretto”, che la lettura di Bell riconduce alla sua essenza di pagina riflessiva ma non cupa fino ad assomigliare a una Marcia funebre. E soprattutto attraversata da una luminosità timbrica che emerge con evidenza costante e poeticamente decisiva, oltre lo schema ritmico così importante ma anche ingombrante.
Salutata alla fine da una lunga ovazione, la serata aveva avuto al centro un’esecuzione del Concerto per violino di Cajkovskij capace da un lato di illuminare le tante gemme che intarsiano il discorso orchestrale (con i legni e gli ottoni dell’Academy sugli scudi) e dall’altro di esaltare la rapsodica e funambolica caratura della parte solistica, ricchissima di “spirito russo” messo a confronto con la tecnica violinistica più ardita. Con il suo meraviglioso Stradivari “Gibson-Huberman” del 1713, Joshua Bell ha attraversato la partitura con la leggerezza, la funambolica precisione, la tenera cantabilità che sono gli elementi principali del fascino di questa pagina, ai quali il magnifico colore ambrato del suono del suo strumento ha aggiunto un elemento di poetica unicità.
Concluso Cajkovskij, al momento del bis di prammatica, il cinquantacinquenne violinista di Bloomington, Indiana, che da oltre un decennio è il direttore musicale dell’Academy of St. Martin in the Fields, ha voluto rendere omaggio alla figura della regina Elisabetta II con un bis al sapore di cronaca mondana. Ha proposto infatti, insieme alla sua orchestra, una breve pagina dalla colonna sonora del film Ladies in Lavender (2004), della quale era stato originariamente l’interprete con la Royal Philharmonic, ricordando che la defunta sovrana aveva assistito alla prima della pellicola perché legata da stima e amicizia per le sue protagoniste, le grandi attrici britanniche Judie Dench e Maggie Smith. E che aveva mostrato di apprezzare anche la colonna sonora. Musica per la verità di non particolare fascino, ma questo è un altro discorso.
Foto © Studio Brenzoni