Il 12 dicembre 1996, La Cenerentola andò in scena al Filarmonico di Verona in uno spettacolo firmato da Pier Luigi Pizzi e diretto musicalmente da Bruno Campanella, grande specialista di Rossini. Nel ruolo del titolo cantava Sonia Ganassi; al suo fianco il tenore americano Rockwell Blake e i due buffi Alfonso Antoniozzi e Bruno Praticò. Tutti nomi “storici” del belcanto italiano e internazionale. Vent’anni dopo, molta acqua è passata sotto i ponti della Fondazione Arena (allora ancora ente lirico), fino ai giorni neri attuali, attraversati dalla crisi più drammatica di sempre. In tutto questo tempo, il capolavoro comico rossiniano, opera stupefacente in grado di trasformare – sulle ali di un belcanto di siderale astrazione – la favola di buoni sentimenti in commedia caricaturale e grottesca, talvolta perfino acre, non è più tornato sulla scena veronese. Lo fa ora in una edizione che sarebbe inutile (oltre che ingeneroso) paragonare con quell’illustre e lontano precedente. Il quale è utile semmai per cogliere quanto i tempi siano cambiati, quanto la progettazione sia diventata una navigazione faticosa e rischiosa, quanto gli intenti si siano ridimensionati e gli obiettivi siano ormai appassiti dentro una routine senza guizzi.
L’attuale Cenerentola – regia di Paolo Panizza, sul podio Sebastiano Rolli – è uno spettacolo che non si sbilancia e men che meno esagera in qualsivoglia direzione, concedendo sorrisi di maniera in un vorticare di mimi e danzatori che dovrebbero animare l’azione. Impresa ardua se i personaggi sono il più delle volte immobili nel loro spazio, limitati da una gestualità generica o dalla cattiva abitudine che oggi impone a chi sta in scena di “ballare” i ritmi trascinanti del compositore. Un Rossini lasciato a briglie lasche, insomma, e alla bacchetta di un direttore che anche l’altra volta che si era sentito al Filarmonico (Maria Stuarda di Donizetti, aprile 2014, con Mirella Devia ad attirare tutta l’attenzione) aveva mostrato di indulgere a tempi slentati, colori senza particolare ricchezza, fraseggio quadrato e senza smalto, senza il bulino là del dramma e qui dell’ironia.
La scenografia di Franco Armieri è anche funzionale e piacevole, nel suo stile fumettistico a tinte sgargianti, con elementi scomponibili che delineano geometrie sghembe alla maniera della drammaturgia dell’opera, ma non è sfruttata più di tanto dalla regia, che si limita a dirigere il traffico delle entrate e delle uscite e a fare un po’ di stucchevole confusione nei finali d’atto. Se poi alla prima salta, dopo un brevissimo assaggio, il coup-de-théâtre della partenza di Cenerentola su una carrozza-zucca intarsiata di led luminosi, subito spenta per qualche intoppo tecnico e sostituita da un singolo spot, sembra quasi che la “Legge di Murphy” sia incontrastata. Come suol dirsi: se qualcosa può andare male, andrà male.
Quanto alla compagnia di canto, impossibile pretendere al giorno d’oggi che la protagonista sia scelta secondo l’assioma enunciato dal contralto Geltrude Righetti Giorgi, prima interprete assoluta del ruolo principale dell’opera nel 1817. «Cenerentola – scrisse la cantante in un suo celebre pamphlet in risposta a Stendhal – non può essere cantata con pieno successo che da una persona che possieda un’estensione tutta uguale, agile e pieghevole di 18 corde. Chi non ebbe dalla natura questo dono non avvisi di cantare la parte di Cenerentola giusta la mente di Rossini». Vocalisti del genere sono di questi tempi una specie rara e sarebbe stato un miracolo trovarne uno nella schiera di giovani cantanti allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala di Milano scelti per questo allestimento, inevitabilmente realizzato al risparmio. Comunque, nel ruolo del titolo Aya Wakizono ha dimostrato di avere un interessante timbro vellutato, specie nei centri e una notevole predisposizione all’agilità, pur nell’ineguaglianza del colore, emersa specialmente negli ardui passaggi virtuosistici del Rondò finale. E anche il tenore Pietro Adaini (peraltro non del gruppo scaligero) ha fraseggiato con proprietà, ben disposto all’acuto ma con un volume molte volte singolarmente esangue, specialmente nella zona media della tessitura. Volenterosi ma acerbi i bassi comici Modestas Sedlevicius (Dandini) e Giovanni Romeo (Don Magnifico) entrambi di colore chiaro e linea di canto misurata fino al punto di risultare generica; precise e ironiche le sorellastre Clorinda e Tisbe, rispettivamente Cecilia Lee e Chiara Tirotta. Fuori dal novero degli allievi dell’Accademia milanese anche il basso nobile Simon Lim, Alidoro, che ha voce copiosa, stile rossiniano vago.
In una rappresentazione probabilmente condizionata anche dalla scarsità delle prove, il coro e l’orchestra areniani si sono battuti con mestiere, non sempre con precisione. Data la situazione in cui sono costretti a operare, è già straordinario.